“Spero di non diventare un’attrazione turistica”, diceva Sciascia. E sul domani del paese lanciava una battuta: “L’archeologia”. Trent’anni dopo cosa resta di quell’amara profezia? Quale è il sogno di una comunità?
“Spero di non diventare né un’attrazione turistica né un bene culturale”. Leonardo Sciascia stringeva gli occhi nel fumo della sigaretta. Era l’autunno del 1987. Ero andato a trovarlo nella sua casa in contrada Noce per parlare del futuro di Racalmuto, per un articolo che fu pubblicato nel numero speciale che festeggiava i primi cinque anni di vita di questo giornale, dal momento della regolare registrazione in tribunale.
Il ragionamento di Sciascia – due anni prima della sua morte, ma questo non poteva saperlo ancora nessuno – era scettico e spietato. Racalmuto si affacciava all’ultimo scorcio del secondo millennio dentro una crisi profonda. Miniere chiuse, emigrazione di nuovo ai massimi livelli, progressivo impoverimento demografico ed economico. Quale poteva essere il futuro del paese di Sciascia se non lo stesso Sciascia? Lo scrittore già individuava il rischio di diventare una statua, al centro di convegni, dibattiti e fotografie scattate in piazza.
“Il futuro di Racalmuto? L’archeologia” disse con una battuta, spegnendo il mozzicone nel posacenere, le gambe accavallate, i pensieri rivolti a un prossimo futuro del paese che aveva amato, a volte detestato, ma nel quale tornava sempre per scrivere i suoi libri. “Cosa ci è rimasto? Soltanto il sale. Possiamo sperare solo in quello. Per il resto non vedo alternative. Non c’è un ceto sociale in ascesa, una categoria che possa diventare classe dirigente. Bisognerebbe inventare qualcosa”.
Già, bisognava inventare qualcosa. Nei programmi elettorali dei partiti si cominciava già a parlare timidamente di turismo, di agriturismo. Ma erano libri dei sogni, probabilmente. L’allora sindaco, Carmelo Bufalino, democristiano credeva più all’agricoltura: “Su questo aspetto dobbiamo puntare, realizzando reti di irrigazione”. E un po’ di turismo, anche, certo. “Un turismo di tipo culturale – diceva il sindaco nel 1987 – la Fondazione Sciascia, ad esempio, potrebbe dare slancio a questa vocazione di Racalmuto. Ho appena avuto notizia che la Regione ha finanziato per un miliardo di lire la ristrutturazione della vecchia centrale elettrica, acquistata dal Comune che dovrebbe accogliere la Fondazione”.
Com’è andata lo sappiamo. La Fondazione da decenni è ospite nella bella sede della centrale restaurata. E’ stata polo magnetico per un turismo colto e letterario? Non sempre, ma forse attorno alla nascita della Fondazione c’erano troppe aspettative, troppi appetiti, troppe ambizioni. Mostre, convegni, dibattiti hanno portato di volta in volta un po’ di gente.
L’ultimo grande evento di rilievo regionale che (dati alla mano) ha portato dodicimila persone a Racalmuto in cinque mesi – più della sua popolazione – è stata la colossale mostra del fotografo Robert Capa. Ma è un’iniziativa che risale all’inverno del 2002, oltre diciotto anni fa. Un episodio che non si è più ripetuto, ma che aveva un precedente illustre: la grande mostra antologica sul pittore secentesco di Racalmuto Pietro D’Asaro, voluta propria da Sciascia nel 1984 che anche quella volta aveva attratto a Racalmuto migliaia di visitatori. Turismo culturale, insomma. E della migliore qualità.
Questi due esempi raccontano come, con investimenti mirati e selezionati, in buona parte ripagati da sponsor privati, si possa far diventare un paese una cittadella della fotografia o dell’arte o del teatro. Bastava rendere periodiche quelle iniziative, replicarle ogni due anni: costruire un’identità che partendo da Sciascia, si ampliasse e diventasse collettiva, riconoscibile, attrattiva. Ma così non è stato e la Fondazione oggi tira avanti con tenacia, con una certa ritrosia, senza colpi di testa: dopo trent’anni dalla morte di Sciascia deve ancora completare l’inventario delle lettere e dei documenti donati dallo scrittore al suo paese. Istituzione encomiabile, ma certo non di slancio per il presente e per il futuro di Racalmuto. Ma forse era chiedere troppo pensare che la Fondazione diventasse il motore di un paese.
“Vorrei che il nostro paese fosse un luogo di attrazione turistica, culturale e architettonica fra quelli rinomati della Sicilia”, dice il sindaco di Racalmuto Vincenzo Maniglia. Un sogno? Ma un sindaco deve pur sognare sul futuro della sua comunità. E a Maniglia è stato chiesto il suo sogno, appunto. “Vorrei che Racalmuto fosse inserito tra le tappe importanti da visitare. Che i parchi urbani e le strutture sportive presenti fossero gestiti da privati che oltre alla loro tutela li rendessero fonte di lavoro per loro e per tanti giovani disoccupati. Che il realizzando metodo delle case ad un euro portasse persone a ristrutturare le fatiscenti case del centro storico per un recupero urbano che rendesse i quartieri abbandonati nuovamente popolati e che tutti i protagonisti della vita politica e sociale facessero insieme un grande sforzo per il rilancio e per essere orgogliosi del proprio paese”.
“La cosa migliore sarebbe che i nostri paesi restassero come sono”, diceva invece nel 1987 lo scrittore Matteo Collura. Conservatore o visionario? Forse allora poteva apparire una posizione radical-chic. Ma oggi, nel post-Covid, con tanti che pensano di lasciare le città per tornare nei piccoli borghi antichi, vince chi ha custodito l’urbanistica, i monumenti, chi ha restaurato chiese e preservato centri storici e campagne. Come a Cianciana, diventata il Ciancianashire di molti inglesi che vi hanno trovato il buen retiro. O come Sambuca di Sicilia dove perfino gli americani sono andati a comprare case a un euro. “Io penso – diceva Collura – a un piccolo paese con la sua buona biblioteca, la sua buona scuola, il suo museo. Insomma, con le stesse cose che ci sono in città, ma col vantaggio di essere piccolo e tranquillo”.
Sciascia che non voleva diventare un’attrazione turistica adesso vigila, sotto forma di statua di bronzo, sui destini del suo paese. I visitatori fanno foto e selfie accanto all’opera dello scultore Peppe Agnello. Il resto, quello che non si vede e non si tocca, sta nell’anima di un paese, certificata dalla scrittura di Sciascia che ne ha immortalato il passato, ma Racalmuto ancora adesso deve decidere sul suo futuro.