Fondato a Racalmuto nel 1980

Il volo del vicerè

Intervista immaginaria a Francesco Maria Venanzio D’Aquino, principe di Caramanico, vicerè di Sicilia che alla fine del Settecento tentò di far alzare una mongolfiera, ma fu umiliato dalla nobiltà di Palermo. Preso in giro dai fornitori, derubato dalle maestranze, il suo sogno di volare sopra la città si risolse in un fallimento. Morì in misteriose circostanze, forse avvelenato. 

Gaetano Savatteri. Foto di Angelo Pitrone

Eccellenza, vorrei aprire questa intervista con la Signoria Vostra…

La prego, non c’è bisogno di chiamarmi eccellenza. E poi tolga tutte queste maiuscole. Suvvia, sono un illuminista: ormai siamo nei tempi moderni, per fortuna non viviamo più nel medioevo, nell’oscurantismo. Non posso essere democratico perché sono monarchico, in fondo sono sempre un vicerè, ma ho letto Voltaire, Diderot, D’Alambert, come lei sa ho vissuto a Parigi. Ecco, limitiamo i titoli onorifici, retaggio di antichi servaggi…

Posso chiamarla Francesco Maria Venanzio?

Beh, questo mi sembra un tantino esagerato. Mi chiami principe, va bene così.

Principe, come va innanzitutto? Come si trova a Palermo?

Benissimo. Ormai sono quasi dieci anni che, per bontà e grazia di sua maestà Ferdinando, rappresento la corona dei Borbone in questa splendida isola e in questa magnifica città.

Ho fatto un giro per Palermo prima di venire qui a palazzo dei Normanni. Ho parlato con un cocchiere di piazza, un venditore di pane ‘ca meusa, un pentolaio, un candeliere, un portatore di sedie volanti e, in verità, di lei si parla con favore. Molti ricordano ancora le sue molte opere di beneficienza in favore dei più bisognosi…

Il popolo di Palermo è generoso, buono e affettuoso…

Qualche critica l’ho sentita invece circolare nei salotti della Palermo bene

Mi lasci indovinare: sarà stato quel pettegolo del marchese di Villabianca.

Mi permetta di tenere riservate le mie fonti…

Sicuramente è stato lui. Se io fossi un altro e se fossero tempi diversi gli avrei già fatto tagliare la testa. Ma sono un illuminista, e poi c’è la legge che va rispettata. Purtroppo. Quel marchese è proprio pettegolo, meno male che le cose che va raccontando in giro si perderanno con lui… ormai è abbastanza vecchio, ha un piede nella fossa.

Veramente ho saputo che il marchese sta scrivendo dei diari destinati alla pubblicazione…

Chissà che scriverà di me? Quasi quasi gli faccio tagliare la testa.

Ma principe, non si fa!

Ha ragione. Non si fa. E poi io sono un autentico illuminista. A volte lo dimentico. Anche se, a Parigi dove tutti sono illuministi, perfino gli spazzini, un po’ di teste le hanno tagliate

Le hanno tagliate anche ai re. Lei è viceré, stia attento a parlare così…

E’ vero. Non è corretto. La regina Maria Carolina ogni volta che si parla di ghigliottina piange pensando alla sua povera sorella Maria Antonietta

Appunto, non si parla di corda in casa dell’impiccato né di ghigliottina in casa del decapitato…

E comunque meglio abbassare la voce…

Perché?

Ho come l’impressione di essere spiato. Sa di questi siciliani è meglio non fidarsi troppo…

Ma non ha appena detto che sono generosi, buoni e affettuosi?

Certo. Ma è meglio non fidarsi. E poi non capisco una parola di siciliano, mi sembra arabo. Questi siciliani sono strani: perfino nei gesti dicono no e sembra che dicano sì.

Principe, come le avevo annunciato vorrei tentare con lei un resoconto dei suoi anni a Palermo…

Gran bella città. Felicissima Palermo. Felicissima.

Proprio felicissima non direi, principe. Ho attraversato alcuni quartieri per venire qui a palazzo e ho visto cose che fanno rabbrividire: tuguri dove vivono uomini e animali, bambini sporchi e scalzi, mendicanti, storpi, malati…

Ci sono molti poveri. Ma alcuni di loro sono felici. Mi consta personalmente.

Principe, sa come si dice a Palermo? La povertà non è vergogna, ma non è certo un vanto.

Oddio, non mi riproponga questa saggezza siciliana intrisa di pregiudizi e cinismo. E comunque Palermo va considerata nella sua interezza. Ha mai visto una città così bella, luminosa, ricca di storia e di monumenti, di chiese e di palazzi? Guardi, le dico senza tema di essere smentito, che Palermo rivaleggia con Parigi quanto a sontuosità ed eleganza…

E quanto a immondizia?

Mah, la nettezza urbana non è di mia competenza. Spetta al senato di Palermo…

Ho parlato con Wolfango Goethe, che è stato in Sicilia qualche anno fa. Era esterrefatto della quantità di immondizia che ricopre il selciato del Cassaro, in pieno centro…

Ma non si lasci impressionare. Quello è tedesco: ha altri standard. Sa come sono i tedeschi, no? Sempre a fare la lezioncina a noi popoli latini, solo perché ci invidiano il sole e il mare…

Veramente Goethe mi ha raccontato che è la nobiltà palermitana a non voler far ripulire le strade del centro perché così le ruote delle carrozze viaggiano sul morbido ed evitano scossoni ai passeggeri. L’immondizia usata come ammortizzatore…

Resti fra di noi: è vero. I nobili palermitani sono viziati, arroganti, sfarzosi e ignoranti. Ma questo non lo scriva, ho già abbastanza nemici…

Principe, ho come l’impressione che tra lei e Palermo non corra buon sangue.

Falso. Io amo Palermo. Ma, come dire, a una certa distanza. Una distanza di rispetto per la sua millenaria storia e la sua nobilissima origine.

Diciamo che le piace vista da monte Pellegrino. So che si fa accompagnare spesso lassù e resta ore ad ammirare la città…

Si sa anche questo di me?

Principe, a Palermo tutti sanno tutto di tutti. Ma è una città che sa mantenere i suoi segreti…

L’ho capito anch’io. Ho impiegato un po’ di tempo, ma l’ho capito…

Cosa pensa quando guarda la città da lassù?

Che è bellissima. Con le sue cupole e cupolette, il sole che la incendia al tramonto, i canti dei venditori nei mercati. Da monte Pellegrino sembra innocua, indifesa, splendente come Gerusalemme, dorata e fragile. Da lassù non si vede il suo cuore oscuro, non si sente la puzza di pesci morti che ammorba i quartieri, non si percepisce la rabbia e la miseria. Bisognerebbe guardarla sempre dall’alto, ma questa è una città orizzontale ed è difficile abbracciarla con un sguardo solo. A volte mi chiedo se esista veramente una città chiamata Palermo.

Se è per questo il suo amato D’Alambert, una trentina di anni fa, nel tomo XI dell’Encyclopedie, ha scritto che Palermo era una città estinta, distrutta da un terremoto…

Magari fosse vero…

Principe, ma che dice?

Scusi, ero sovrappensiero. Immagini di essere un falco, un’aquila, un gabbiano: pensi che bellezza deve essere volare su Palermo, molto al di sopra dalle bassezze delle passioni, della politica, degli interessi individuali che ci schiacciano al suolo.

Mi hanno detto che lei ha provato a volare…

Dobbiamo parlarne per forza?

Perché no?

Come le ho detto, io ho vissuto per qualche tempo a Parigi…

Lo so, è stato ambasciatore del regno di Napoli presso la corte francese…

Esatto. In quegli anni ho assistito personalmente agli esperimenti dei fratelli Montgolfier. Me ne è venuta come una malattia per il volo, per la scienza, per l’aerostatica. E quando sono arrivato a Palermo ho incaricato uno scienziato di studiare la possibilità che anche la Sicilia potesse competere con le ultime scoperte francesi. Purtroppo nel frattempo avevo molte cose da fare e non potevo seguire personalmente…

In effetti, nei suoi primi anni ha preso decisioni scomode. Ha abolito l’uso palermitano di girare armati, ha introdotto la vaccinazione contro il vaiolo, ha limitato il lusso sfrenato delle carrozze delle case nobiliari che bloccavano il traffico con il loro stuolo di servitori in livrea…

Quei maledetti nobili palermitani non me lo hanno mai perdonato: tengono alle loro carrozze più che alle loro mogli, le quali infatti si fanno cavalcare da tutti…

Ma principe, che modi sono?

Mi perdoni. Come le dicevo, avevo affidato l’incarico di costruire un pallone aerostatico all’abate Eustachio Barone, dell’accademia degli studi di Palermo…

Un grande studioso…

No, è solo un grande cretino. E’ tutta colpa sua.

Cosa?

Guardi, mi fa ancora male parlarne. Dopo mesi di studi, denari ed esperimenti, tutta Palermo parlava del grande esperimento che ci avrebbe messo al pari con Parigi. Quel giorno a piazza Marina c’era un mondo: dalla nobiltà al popolino. Ma tutti con un sorrisino sfottente che sembra dicessero: voglio proprio vedere. Sa come sono i palermitani, no? Non credono a niente, non hanno fiducia negli altri, si fidano solo di se stessi e irridono ogni novità. Ma li avrei stracciati con la leggerezza di un pallone che galleggiava in cielo. Invece…

Invece?

Invece niente. Proprio niente. Il pallone non si gonfiava. Gli operai, i tecnici, gli scienziati si affollavano attorno, sempre più disperati. Il pallone restava afflosciato a terra, inutile quanto una ciaramella bucata. Dalla moltitudine di popolo si alzava invece un brusio, un coro di scherni e battute. Arrivavano fino al palco delle autorità. Al vicerè non si gonfia, dicevano. Al vicerè resta moscio, dicevano. Poi qualcuno fischiò. Un fischio forte, lacerante, da pecoraio. E tutti cominciarono a seguirlo. Io personalmente vidi il marchese di Villabianca che fischiava con due dita in bocca, circondato dai suoi amici. Che vergogna. Che vergogna.

La capisco, principe. Ecco uno di quei casi in cui farebbe bene tagliare qualche testa…

Lo pensa anche lei, vero? Ma io sono troppo buono. E poi sono un illuminista.

Lo ha già detto…

Eustachio Barone però l’ho fatto cacciare dall’accademia. Almeno questa vendetta me la sono presa.

Ma cosa non aveva funzionato?

La stoffa del pallone. Era seta di pessima qualità. Qualcuno aveva fatto la cresta sul finanziamento comprando una seta che non teneva bene l’aria calda. Ci sono troppi ladri e troppi furbi a Palermo… Ma io non mi sono arreso. Digerito lo smacco, con grande dignità mi sono rimesso al lavoro. Ogni tanto sentivo i commenti quando passavo in carrozza. Mi avevano soprannominato Pallone Sgonfio. Ma io tiravo dritto, mai dare soddisfazione all’ignoranza. E andavo avanti.

E la seconda volta è andata meglio?

Per sicurezza avevo fatto comprare una seta che costava un occhio della testa. Tutta la nobiltà palermitana stava affacciata alle terrazze della Marina. Sembrava il festino di Santa Rosalia. Il popolo succhiava babbaluci, mentre i nobili gustavano sorbetti di scorsonera e cannella. Dietro ogni sguardo leggevo l’irrisione. Sognavo di vedere il pallone alto nell’aria, contro il profilo di monte Pellegrino, per spegnere le smorfie dei malevoli e trasformare la diffidenza in entusiasmo. Ma qualcosa andò storto..

Di nuovo, principe? E cosa?

Il mastice che univa le strisce di stoffa non reggeva e lasciava passare l’aria calda. Il pallone non si gonfiò e restò a terra.

Immagino i fischi…

No, questa volta ridevano. Ridacchiavano tra di loro, si davano di gomito. Sa come chiamavano il mio pallone? Una minchia piena d’aria. A questo mi è toccato assistere e questo mi è toccato subire. Se non fossi un illuminista avrei preso a cannonate tutta la città. Così avrei almeno confermato l’errore di D’Alambert: Palermo città distrutta a cannonate dal suo vicerè.

A quel punto avrà desistito…

Sono capatosta, come si dice a Napoli. Mi spezzo, ma non mi piego.

Forse sarebbe stato meglio desistere…

Col senno di poi le dico che ha ragione. Ma volevo dimostrare che anche un viceré può volare alto. E io volevo volare altissimo, sopra questi palermitani pezzenti e spocchiosi, sopra questo popolo miscredente e scettico, superbo e presuntuoso. Gli volevo pisciare in testa, come suol dirsi…

Principe, moderiamo il linguaggio

Ha ragione, ma mi faccio prendere dalla passione.

Immagino che anche il terzo tentativo andò in fumo…

Fumo. Ha detto la parola giusta. Al terzo tentativo il carburante per riscaldare l’aria prese fuoco e si alzò una nuvola di fumo nera, carica di anidride solforosa che almeno fece scappare via tutti dalla Marina, impregnò i vestiti e le parrucche dei principi e dei baroni, restò nell’aria per giorni come una pestilenza. Le confesso che con piacere avrei voluto che fosse vera peste, per decimare la popolazione palermitana. Mi restò invece appiccicato un nuovo soprannome: il Puzzone.

Mi dispiace veramente…

Fosse finita qui. Ma i palermitani sono cattivi, aridi e vendicativi.

Non erano generosi, buoni e affettuosi?

Macchè, sono dei serpenti. Qualche mese dopo il terzo fallimento, il  principe di Butera e Pietraperzia diramò un invito che fece recapitare anche me. Guardi, lo tengo ancora nel cassetto. Legga

“Giorno 11 marzo in piazza Marina, dimostrerò all’eccellentissimo viceré ed ai nobiluomini e nobildonne, che si degneranno di convenire nella piazza sulla quale il mio palazzo si affaccia, la riuscita del primo esperimento di volo in mongolfiera su Palermo”. Sembra una sfida diretta a lei…

Chiarissima. Ma potevo non andare? E così mi presentai in pompa magna. D’altra parte il principe di Butera è un Pari di Spagna, una delle famiglie di più antico lignaggio della Sicilia. In realtà il principe è un idiota che non si è mai occupato di scienza né di altro, passando tutto il suo tempo al circolo a giocarsi i feudi a zecchinetta. Ero sicuro che questa volta mi sarei preso la rivincita. E invece quel grandissimo figlio di..

Principe!

Scusi, sa, la passione. Alle cinque del pomeriggio dal terrazzo del palazzo di principe si librava in aria un pallone. Un pallone di piccole dimensioni, un pallone alto si è no quanto un uomo. Ma si sollevò, galleggiò in alto, cominciò a veleggiare verso monte Pellegrino. Dalla folla si levò un boato di applausi. Il principe di Butera se la godeva, mi invitò a celebrare l’avvenimento con due parole. E mi toccò fare i complimenti, congratularmi con il principe e la nobiltà tutta che avevano riscattato il nome di Palermo a maggior gloria. Mi sarei mangiato la parrucca dalla stizza, altro che felicitarmi col principe di Butera. Avrei dovuto fargli tagliare la testa, ma purtroppo non si può fare. In un colpo solo mi aveva ridicolizzato e aveva segnato un punto a favore della nobiltà palermitana, da sempre sfaticata e avversa alla corte di Napoli. Maledetto lui e il suo pallone…

Adesso ho capito a cosa pensa e ripensa quando si fa accompagnare su monte Pellegrino…

Esatto. Penso ai miei palloni che non volarono, alle mie idee che non vengono capite, alle mie riforme che vengono osteggiate. Penso che sarebbe bello guardare Palermo dall’alto, senza sporcarsi i piedi nel fango e nella polvere, senza sentire i fiati della gente, le loro parole insultanti, il loro accento lamentoso e strascicato. Una città dall’alto è sempre una città perfetta. E Palermo potrebbe essere perfetta, ma bisognerebbe saper volare. E io non ci sono mai riuscito. Adesso mi scusi, ma si è fatto tardi: ho alcuni impegni di lavoro.

E’ vero. Si è fatto tardi. Grazie e buona serata principe…

Buona serata a lei. E non mi tratti male, sono solo un povero viceré di Sicilia. Un lavoro che non vuole fare nessuno. Non mi alzo e non la accompagno alla porta: anche se illuminista, resto pur sempre un principe.

P.S. Questa intervista esce postuma, perché pochi giorni dopo il nostro colloquio, l’8 gennaio 1795, il principe di Caramanico è improvvisamente deceduto. Si sospetta per avvelenamento. Aveva 57 anni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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