Gesualdo Bufalino, l’intervista rilasciata a Gaetano Savatteri nel 1984. Lo scrittore di Comiso era molto legato al nostro giornale
Lei conosce Racalmuto, ne ha scritto (sull’Espresso, nella rubrica «Viaggio a », n.d.r.). Quale suggestioni le evoca?
Il contatto con una cultura ancora intatta. O dio, io non conosco abbastanza Racalmuto per poter controllare fino a che punto e in che misura la civiltà dei nostri padri, la civiltà della lealtà, della sobrietà antica ancora continui qui o sia in qualche modo contaminata dall’età più recente. Quello che è certo che di questo paese, nella sua semplicità, nella sua probabile povertà ricavo un’immagine triste e nello stesso tempo lieta, amabile, della Sicilia di un tempo.
La figura di Gesualdo Bufalino reca in sé un palese contrasto. A prima vista l’autore della «Diceria» appare timido, riservato, quasi imbarazzato nei confronti dell’intervistatore. Ma è breve impressione. Ben presto la ritrosia iniziale si trasforma in un diluvio inarrestabile di parole, quasi senza alcuna pausa. Cosa spinge uno scrittore a scrivere un libro e a tenerlo poi dieci anni in un cassetto, come lei ha fatto con la «Diceria»?
Le ragioni nel caso mio sono state di varia natura: di ordine esistenziale, di ordine pratico, di ordine tecnico. Innanzi tutto io credevo (e in qualche modo ancora credo) nell’opera perfettibile all’infinito, l’opera cioè che cresce su se stessa e che finisce soltanto con la vita dell’autore. Si capisce che in un’idea simile la pubblicazione diventa un incidente di percorso. Nel momento in cui l’opera viene pubblicata si raggela, diventa un cadavere consegnato ai lettori. Fino a quando, invece, l’opera rimane nel cassetto è una opera viva, che prolifica. Senza dire ancora che io – e questo è veramente grave confessarlo – credo che l’unico autentico lettore di un testo sia l’autore e che offrire un’opera al pubblico sia un poco come contaminarla, come esibirsi in una sorta di spogliarello morale.
Non c’è in questo atteggiamento la paura, tipicamente siciliana, del giudizio degli altri?
Non tanto la paura del giudizio obiettivo, cioè la bocciatura o la promozione, non era questo che mi spingeva. Anche perché io per primo ero severo verso me stesso – e continuo ad esserlo – da considerare l’opera eternamente imperfetta, sicchè pubblicarla significava pubblicare un aborto non arrivato a compimento e che non vi sarebbe mai arrivato, perché l’opera perfetta è, nel caso mio, quella che non finisce mai. Accanto a questo c’erano delle obiettive ragioni pratiche. Si scrive un libro ma poi, vivendo in provincia, non si ha quel naturale commercio con altri intellettuali, con case editrici che possano, ad un certo punto, consentire una riprova.
Lei ha detto che sta per scrivere un « romanzo felice » ambientato in Sicilia
Non so se l’ho detto, quando l’ho detto, in effetti è vero. Ma era un’intenzione. Non so fino a che punto questo romanzo sarà felice, temo proprio che non lo sarà. L’intenzione era questa: lo scrittore infelice che tenta di scrivere un libro felice per curarsi. Che poi ci riesca è un’altra cosa. Ma è bene precisare che il mio concetto di felicità non è legato al concetto di Sicilia. La mia infelicità, o il mio concetto di infelicità non è legato ad un preciso ambiente biologico o storico-geografico. Si potrebbe dire però, parodiando Orwell: tutte le regioni sono infelici, ma la Sicilia è un po’ più infelice delle altre.
Siamo nell’età dei computers, della informatica. Come si concilia tutto questo con la sua letteratura fatta di piccole cose, di memorie provinciali, di privati «musei d’ombre»?
Non c’è nulla che debba conciliarsi. La civiltà può continuare per le sue strade bellissime o brutte, secondo i casi, meccanicizzarsi quanto vuole ma non potrà mai uccidere la memoria dell’uomo. La memoria è ciò che rende l’uomo vivo. L’uomo esiste in quanto ricorda. Le bestie probabilmente hanno soltanto una memoria biologica, ma la memoria dell’uomo è quella che lo rende in qualche modo immortale o, almeno finchè è vivo, gli consente di moltiplicarsi, cioè di non essere nell’attimo, nell’istante, ma di avere un ieri e un domani. Quindi io posso servirmi di un computer senza che questo uccida in me la possibilità del ricordo, ma sono altresì convinto che sarò vivo fino a quando ricorderò.
La sua vita si è interamente svolta tra le case di Comiso, pur anelando sempre alla fuga. Ma è meglio fuggire o rimanere nelle proprie case, nei propri paesi?
Io suggerirei la fuga e il ritorno. Bisogna fuggire per poter imparare che si deve ritornare. In definitiva io suggerirei a ciascuno di seguire la vecchia parabola di Ulisse. Starsene dieci anni ad assediare una Troia imprendibile, prenderla, vagare per dieci anni attraverso tutti i mari, conoscere le sirene, l’amore e gli incantesimi di Circe, conoscere Nautica e ritornare poi a Penelope, cioè al ventre della moglie, in questo caso nel proprio paese, nella propria terra.
Vivere a Comiso impone una domanda: come si vive coi missili accanto?
Non ho mai pensato che fosse più importante che ci fossero i missili a Comiso che non che ci fossero in qualsiasi altro posto. Non è che io debba avere un’opinione particolare per il fatto che vivo a Comiso diversa da quella che avrei se i missili fossero a Copenaghen o altrove. Il fatto che esistano i missili è male, ma, aggiungo, il fatto che esistano le armi convenzionali è male, il fatto che esistano i coltelli per aggredire è male. Tutto ciò che è violenza e non è invece pietà e carità, è male. Che ad un certo punto i missili possano rivelarsi, non dico necessari, ma in qualche modo utili a rendere innocua la possibilità di una guerra convenzionale questo mi sta bene. Devo constatare che dalla seconda guerra mondiale non c’è stata nessun’altra guerra mondiale. Senza le forze nucleari sarebbe stato così? Non lo so, non so rispondere: ho le idee molto confuse, molto turbate, posso solo augurarmi che il mondo rinsavisca.
Lei è quindi d’accordo con Sciascia quando dice che la collera degli imbecilli incombe sul mondo.
Questa è una frase che condivido in pieno. E’ la collera e l’ignoranza degli imbecilli che può trovare rimedio solo nel giorno in cui dal basso, da noi, si creasse una forza che riuscisse a travolgere questa aristocrazia, che è anche tiranna, dei politici, sulle forze vive del sentimento, della carità e della pietà.
Da Malgrado tutto, 1984