Il racconto di Savatteri. Dove vanno a morire i treni dal nord? E cosa c’è oltre il mare africano? Tra nostalgia e sogno, l’apparizione di Agrigento come una città inesplorata e misteriosa
Il treno partiva alle cinque del pomeriggio dalla Stazione Centrale di Milano. Valigie, pacchi, pianti di bambini, cappotti, nomi, richiami si accavallavano lungo la banchina. Il nostro viaggio sarebbe durato ventiquattro ore.
Il treno percorreva l’Italia. Con un dito seguivo sulla cartina della penisola, attaccata vicino al bagno, il lento incedere del convoglio di cui si scorgeva a malapena la lunghezza, quando si inclinava per affrontare le curve.
Inoltrandosi verso sud, il treno via via si spopolava. Nell’approssimarsi alla nostra fermata – una delle ultimissime del lungo percorso che impiegava una sera, una notte, un’alba, una mattina, un traghetto e ancora altre lunghe ore e silenziose fermate a ogni stazione di campagna o di paese – negli scompartimenti restavano solo giornali stropicciati, avanzi di cibo, fiaschi di vino vuoti, allora mia madre e mio padre tiravano giù i bagagli, raccoglievano abiti, libri, maglioni e guardavano dai finestrini nello scuro della sera cercando di scoprire le luci della stazione familiare che anelavano da ventiquattro ore.
Dopo che scendiamo noi, il treno dove va? – chiedevo. Ad Agrigento – rispondeva distratto mio padre, la faccia stanca, impaziente di arrivare. E poi? – insistevo. E poi niente – rispondeva mio padre, gli occhi sulla campagna già buia nell’inverno, per intravedere i suoi paesaggi del ritorno. Ma deve andare da qualche parte – proseguivo, petulante per la noia e la fatica del viaggio. Non può andare da nessuna parte, ad Agrigento c’è il mare, il treno si ferma – si spazientiva papà. Non può essere – insistevo, solo per il gusto di dire la mia. C’è il mare, lo capisci, il treno non può andare avanti, e dall’altra parte c’è l’Africa, ci sono i leoni, sei fai un po’ di silenzio li puoi sentire – sbottava mio padre per tacitarmi, mentre i freni del treno fischiavano e mia madre mi stringeva la mano per paura di perdermi, di lasciarmi a bordo.
I leoni non li ho mai sentiti. Né quella sera né mai. Eppure alla stazione del mio paese c’era molto silenzio, gli sportelli venivano richiusi con clangore di ferro e il treno ripartiva andando a spegnersi dietro la prima curva. Vedevo i fanali rossi di coda, pensavo a quanta strada aveva fatto quel treno solo per andare a morire una ventina di chilometri più in là. E mi immaginavo il treno, il mio treno, arenato sulla sabbia di Agrigento, rabbioso, stanco e impotente di fronte al mare, vuoto e fermo nella notte ad ascoltare il ruggito dei leoni africani, di là del canale di Sicilia. Ma era solo un pensiero, perché già dovevo affrontare i baci dei parenti venuti ad accoglierci.
Ad Agrigento andavano a morire tutti i treni. Dopo c’era il mare, l’Africa e i leoni. Agrigento, per me cresciuto in pianura padana, era la fine dell’Italia, del mondo conosciuto. Non sapevo che nelle antiche carte geografiche scrivevano “hic sunt leones” per indicare le terre inesplorate, ma pensavo che da Agrigento – ultimo confine, barriera invalicabile per i treni che riuscivano a solcare fiumi, aggirare laghi, scalare montagne, ma destinati a fermarsi lì – veramente si potesse sentire il fiato dello sbadiglio dei leoni.
Agrigento era sempre distante. Distante da tutto. La prima volta la vidi che ero bambino: ricordo l’abbaglio di luce come in una foto sovraesposta. I vigili urbani di Agrigento avevano una divisa bianca e portavano uno strano copricapo, simile a quello degli esploratori dei miei romanzi d’avventure, con un telo bianco che penzolava sulle spalle a difendere la nuca dalla calura africana. Certo che ad Agrigento si sentivano i leoni, sennò i vigili non avrebbero indossato quel cappello.
La luce era forte, i contorni sfocati e nel sole si muovevano lentamente le persone, le auto, lo strillone del giornali, l’odore dei calzoni fritti. Il santo era nero, scuro come la notte africana: San Calò si portava dietro una cerva che doveva aver salvato dalle fauci dei leoni affamati. Le strade della città erano strette e contorte, oppure dritte e larghe, alberate e affacciate su un mare sconfinato, nessuno camminava al sole, ma tutti si difendevano nell’ombra delle strade anguste o nelle chiazze di frescura delle magnolie.
Pensai: Algeri. Non so perché, nulla sapevo di Algeri dove, peraltro, non sono mai stato. Quel nome di città mi affiorava, detrito di qualche racconto di viaggi, forse il luogo più esotico che riuscivo ad immaginare a un’età bambina. Algeri. E il pensiero di una città distante e inaccessibile sempre mi tornava ad ogni ritorno ad Agrigento: Algeri, Beirut, Orano. E le facce di quei bravi padri di famiglia o dei malacarne che stazionavano a Porta di Ponte, dalle parti dell’edicola e del bar Patti, all’imbocco di via Atenea mi parevano facce di spie, contrabbandieri, pirati, negrieri nelle loro camicie bianche, nei loro abiti scuri, con il bottone nero sul bavero o la fascia al braccio di un lutto recente, simbolo di chissà quali squadroni di mercenari in una Casablanca dove si consumavano pigrizie, parole e granite di caffè.
Poi, per molte complesse ragioni, Agrigento sembrò diventare vicina. Fu il luogo dove frequentai il mio liceo, ogni mattina su e giù in treno dal mio paese che distava una ventina di chilometri. Eppure Agrigento rimase sempre distante. Distante per i tempi delle ferrovie siciliane che impiegavano – e impiegano ancora – quaranta minuti per coprire meno di venti miglia.
Ma distante anche nel clima: seppur prossimo, il mio paese ha sempre avuto inverni rigidi e le estati affocanti dei luoghi senza mare. C’erano giorni che partivo dal mio paese coperto di nebbie dense, per arrivare ad Agrigento che già la primavera brillava contro il tufo dei Templi e nei fiori dei mandorli. Avvicinandomi alla città mi spogliavo delle previdenti maglie di lana che le preoccupazioni materne imponevano, dei maglioni da alpinista che il freddo di Racalmuto rendeva obbligatori. Le mie compagne di scuola di Agrigento già da settimane avevano smaltito nei loro armadi le lane, in un rapido cambio di stagione che ora scopriva braccia e gambe.
Agrigento era sempre distante nella sua approssimativa vocazione turistica: si potevano incontrare ad aprile i cappellini delle vecchie francesi o i sandali con i calzini dei tedeschi instancabili. Al mio paese solo emigrati vedevamo, paesani che tornavano per le feste con figli e figlie che parlavano un dialetto antichissimo, scherzando fra loro negli incomprensibili slang americani o belgi. Anche la presenza di stranieri rendeva Agrigento esotica, terra d’oltremare, dove ci si poteva fingere turisti o indigeni sia pure per incontrare un altro pezzo di mondo, cercando di capire come siamo noi algerini o oranesi visti con gli occhi degli altri.
Agrigento era distante per la sua parlata, quel dialetto in cadenza cantante, con le T dolcissime e arrotondate, così diverso dalla parlata del mio paese, cavernosa e contorta e rocciosa come lo zolfo e il salgemma che covavano nelle viscere delle montagne di Racalmuto. Era quella girgentana la cadenza di un’altra terra, forse la lingua perduta dei leoni, per ammansirli e tacitarli quando sbadigliavano rumorosamente nelle notti d’estate.
Molti anni dopo, una volta lasciata la Sicilia, avrei scoperto che Agrigento era distante da tutto. Dall’Italia e dall’Europa. E bastava dire Agrigento, a specificare la propria provenienza, per immaginare nella testa dell’altro la misura di una distanza incalcolabile, alla fine di una penisola troppo lunga, sulla sponda di un mare troppo africano e lontano. Avrei scoperto che Agrigento era distante nei numeri: nel reddito medio, negli indici di vivibilità, nei tassi di disoccupazione giovanile, nell’incidenza dei servizi pubblici, nel tempo per raggiungerla attraverso strade scassate e viadotti crollati e mezzi pubblici carenti. E provavo mortificazione e pena nel sentirmi responsabile per la mia parte, grande o piccola che sia, di averla lasciata così distante e lontana dal resto del mondo.
E così ogni volta che pronuncio il nome di Agrigento – mia Algeri, mia Orano, mia Casablanca slabbrata, mia Girgenti perduta – per un momento la sento vicina come una foto tenuta in serbo nel portafoglio: una polaroid sovraesposta, i contorni sfocati, un vigile urbano con la divisa bianca. Avvicino la foto e ascolto i leoni. Non so se ruggiscono di fame, rabbia o nostalgia.